Racconto vincitore a pari merito dell'edizione 2005
UN CIRCO MINIMO
di Andrea Dilaghi, di Montespertoli (FI)
La prima magia era vederli arrivare, come tutti gli
anni, con l'aria nuova dei primi di maggio.
Ai nostri occhi di ragazzi veder arrancare quei tre carrozzoni, troppo
grandi per la strada piena di curve che portava in cima alla collina,
era già uno spettacolo da non perdere.
Il nostro paese aveva a malapena le case necessarie per formare la
piazza dove in breve veniva montato il tendone, una pedana di legno,
tese le corde per i trapezisti, installate le luci e alcuni altoparlanti
dalla voce gracchiante.
I manifesti appesi promettevano l'incredibile: animali selvaggi, illusionisti,
man-giafuoco e tutto quello che non avreste mai visto, nemmeno alla
televisione.
"È un circo minimo" diceva mio nonno, anche se non
credo ne avesse mai visti di migliori.
C'erano numeri dove un trapezista camminava su una corda tesa, altri
dove una anziana leonessa saltava nel cerchio di fuoco, dove un pony
trottava a tempo di musica e due scimmie facevano giochi di abilità
con dei fazzoletti colorati.
Ricordo di aver pensato, sull'onda dell'entusiasmo, che non doveva
essere poi così difficile imparare a usare il trapezio oppure
a camminare sulla corda tesa e che avrei potuto insegnare al mio cane
qualche esercizio da circo.
Ma si trattava soltanto di un'idea passeggera che sfumava con la certezza
che il mio cane non avrebbe mai imparato niente da me.
Al contrario, era lui che aveva l'aria di volermi insegnare qualcosa,
con il suo obbedire solo agli ordini che riteneva ragionevoli, per
esempio. Oppure con il mangiarsi una gallina ogni tanto, per non sacrificare
il suo istinto alle leggi della mezzadria e del quieto vivere. Dopo
accettava con rassegnazione le conseguenti bastonate, con occhi da
martire, offrendo al mondo la sua lezione di vita.
No, era escluso che potesse diventare un cane da circo.
Miriam era una bambina di pomeriggio e diventava una
ragazza di sera, quando, con addosso una calzamaglia nera piena di
lustrini, era il bersaglio per il lanciatore di coltelli, suo padre.
Suo padre Cesare era anche un clown, un prestigiatore e il padrone
del circo. Qualcuno si ricordava che da giovane era stato anche un
bravo trapezista. Sua ma-dre, una donna dai capelli scuri e lunghissimi,
intrecciati di perline, sembrava un'indiana e stava sempre in disparte,
sulla porta del carrozzone, con l'aria di chi riesce ancora a stupirsi
di cose che conosce a memoria. Si diceva in giro che sapes-se leggere
il futuro nel palmo delle mani ma che, viste le prospettive poco promet-tenti
che c'erano in paese, per amore di verità preferisse non esercitare.
Miriam non era soltanto la figlia di Cesare e di sua moglie: se qualcuno
mi fosse venuto a raccontare che, durante uno spettacolo di una dozzina
di anni fa, lei era spuntata dal cilindro del prestigiatore al posto
del solito coniglio bianco, non avrei trovato niente da ridire su
questo suo modo particolare di venire al mondo.
Perché il circo è sempre vero e sempre falso e lo spettacolo
non finisce mai.
Per questo non mi sembrava strano che Miriam nel pomeriggio si incantasse
a guardare con occhi da bambina il mio albero preferito, dove mi arrampicavo
quan-do volevo stare da solo.
"Tutti dovrebbero avere un posto così" diceva.
Mi sembrava anche normale che si trasformasse in una ragazza, quasi
una donna, di sera, durante lo spettacolo: era la magia del circo.
Cesare sapeva come chiedere al pubblico silenzio e attenzione.
"È un numero difficile, questo" spiegava rigirando
con finta incertezza un affila-to coltello fra le mani "questa
è la mia ultima figlia, non posso permettermi di sba-gliare.
Fingeva di inciampare, si faceva cadere il coltello di mano.
"Sapete, ne avevo molti di figli, una volta... eravamo un grande
circo." Si asciu-gava una invisibile lacrima, tirava un sospiro
e proseguiva.
"Purtroppo ho commesso molti sbagli prima di diventare un buon
lanciatore di coltelli."
Miriam si sforzava di apparire terrorizzata ma rideva con gli occhi
e aveva un ce-rotto finto sulla guancia.
Lui si metteva un dito in bocca, lo sollevava in aria per vedere la
direzione del vento, poi iniziava, con nervosismo ostentato, a lanciare
i coltelli: tutti, uno dopo l'altro, a un dito dal corpo della figlia,
tutti perfettamente allineati ad aspettare l'applauso finale mentre
lui correva avanti e indietro sul palco gridando:
"È andata bene, è andata bene anche stasera!"
Nel pomeriggio lo potevi trovare nel bar, Cesare, a
studiare le caratteristiche dei personaggi del posto, il loro intercalare.
Durante lo spettacolo riusciva a riportare in scena quella comicità
involontaria ed erano in molti, la sera, a ritrovarsi spetta-tori
di se stessi.
Si faceva coinvolgere a fare il gioco delle tre carte e regolarmente
vinceva.
Alla fine però rendeva i soldi a chi li aveva persi e si faceva
pagare solo da bere.
"Se ve li prendo ora, con cosa pagherete il biglietto, stasera?
Perché, sia chiaro, dopo cena vi aspetto tutti alla cassa:
in fondo pagate con i miei soldi" diceva.
Era un invito inutile: nessuno sarebbe mancato, nessuno sfuggiva al
fascino di quella gente, che forse aveva soltanto scelto un modo diverso
dal nostro di essere povera.
Senza radici né padroni, senza orari, con quelle loro case
con le ruote, con appe-na un briciolo di talento, un po' di fortuna
e tanto coraggio, erano un mito raggiun-gibile, quasi a portata di
mano.
"È un circo minimo" ripeteva mio nonno scuotendo
la testa, ma non si perdeva uno spettacolo.
Partivano dopo una settimana, per il paese sulla collina
di fronte. Poi ancora a-vanti, poi altra strada ancora e nuovi spettacoli,
fino alla fine dell'estate.
Chissà dov'è che andavano d'inverno, me lo sono sempre
chiesto. Ma anche questo era un aspetto del loro essere magici, e
mi piaceva che restasse un mistero.
Però io l'ho vista Miriam, nella sua casa con
le ruote, il giorno che partiva.
Era davanti allo specchio, di profilo, con i capelli sciolti. Si teneva
i seni con le mani e si scopriva donna.
Ho visto gli occhi che aveva, quando i carrozzoni, pieni di sogni
smontati, si so-no mossi: in quel momento, per lei, la magia eravamo
noi.
Noi con le nostre case senza le ruote ma con i camini sempre accesi
dentro, con il nostro mondo piccolo e sempre uguale a se stesso, con
la nostra fatica senza ap-plausi, con la noia dei giorni di pioggia;
noi con i nostri cani non ammaestrabili e i nostri alberi preferiti,
dalle radici profonde e dalla chioma folta come una foresta dove rifugiarsi
a smaltire i cattivi pensieri.
"È un circo minimo" mi sono sorpreso a pensare. Eppure
non ne avevo visti di migliori.