Racconto
vincitore dell'edizione 2002
FAVOLA
DI NATALE
di
Andrea Romoli
Il
capitano uscì lentamente dalla piccola porta in metallo e rimase
a fissare attraverso il gelo della notte le tante piccole luci accese nel
campo attorno. Lunghi minuti forse ore.
Arriva
sempre un tempo quando il tempo non ha più importanza e per il capitano
quel tempo era venuto da molto ormai. “La notte di Natale è proprio
un posto bello - pensò - che strana felicità porta ogni anno
con sé e che strano ricordare senza più sofferenza, esistere
per un attimo senza fretta.”
Un
soffio di vento alle sue spalle ed un’ombra gli si affiancò.
Il
capitano non si voltò neanche, tanto sapeva benissimo chi era.
«Caporale,
lei ha proprio intenzione di starmi sulle costole per tutta l’eternità?
Neanche la notte di Natale posso godermi senza la scorta?»
L’ombra
vicino a lui divenne un viso e su quel viso c’era un sorriso così
allegro e sereno da far sembrare un bambino cresciuto a dismisura quella
figura di ragazzo che portava la sua stessa uniforme ingrigita, lo stesso
maglione a collo alto ma la memoria di tanti meno anni vissuti.
«Cosa
ci vuole fare, sarò la sua croce “in omnia Fecola seculurum”»
disse il ragazzo «del resto non posso mica lasciarla da solo a rischiare
di prendere una pallottola da una pattuglia nemica.»
Il
capitano fece un lungo sospiro e si voltò verso il nuovo arrivato.
«Senti,
caporale, prima di tutto si dice Sæcula sæculorum e poi si
può sapere di che pattuglia stai parlando, lo vuoi capire che per
noi la guerra è finita, che tutto è finito, che noi siamo
finiti?»
Il
marò, intimorito dalla risposta brusca del suo ufficiale abbassò
gli occhi. «Ma se è tutto finito perché siamo qua io
e lei?»
«Perché
è Natale, scemo» rispose sorridendo il capitano «e in
questa notte chi vuole è franco di libera uscita, lo sai benissimo.»
«Oddio
è già Natale» disse il caporale. «Si ricorda
capitano, era di Natale che abbiamo incontrato quella pattuglia di slavi
su nella selva che avevano preso una ragazza ferita col bambino e allora
lei è uscito fuori con la pistola e ordinato l’alt e io dietro con
il mitra spianato. Li abbiamo fregati, si ricorda capitano, scappavano
così veloce che non siamo nemmeno riusciti a sparargli... e poi
la ragazza che stava morendo le ha messo in braccio il bambino. Come la
guardava quella ragazza se lo ricorda capitano? E quando ha chiuso gli
occhi lei ha dato il bambino a quella spinaccia del marò Vannucchi
perché lo riportasse in città al sicuro... e poi hanno cominciato
a fischiar palle che i due di prima erano andati a chiamare i loro amici...
se lo ricorda capitano che io e lei ci siamo fatti prendere in mezzo per
far scappare quello scemo di Vannucchi col bambino? Si ricorda capitano
come era bella quella ragazza anche se le avevano rapato la testa e come
la guardava, ricorda?»
«Sì,
caporale, mi ricordo benissimo, il guaio è che mi sono dimenticato
tutto il resto» disse l’ufficiale fissando la luna.
«Sa
una cosa, capitano? È strano ma anche a me sembra di non ricordare
più altro.»
E
nel camposanto, oltre la porta di ferro della cripta le due ombre di soldati
di una guerra finita da tanti anni rimasero lì, stupiti dalla luna
e dall’eternità del tempo che era passato lasciandoli indietro.
«Buona
sera signori, posso disturbare?». Una voce sgnaulante li fece voltare,
era un piccolo gattino bianco e nero che li fissava.
«Oddio
capitano, quel gatto ci ha parlato.»
«È
Natale, scemo» rispose l’ufficiale sottovoce per non farsi sentire
dal nuovo arrivato. «Noi siamo franchi e gli animali possono parlare.
Non ti ricordi l’anno scorso che ci siamo fermati tutta la notte a chiacchierare
con quel gufo che si ricordava di aver visto il nostro battaglione andar
su verso Tarnova?»
Il
capitano si volse verso il gattino che li osservava serafico seduto sulla
piattaforma di marmo di una tomba vicina.
«Buona
sera, piacere di conoscerla finalmente di persona; se non sbaglio ci siamo
già visti.»
Il
gatto rispose:
«Sì,
credo proprio di sì, vengo spesso a cacciar topi giù da voi
ed un paio di volte ho visto i vostri visi fissarmi attraverso la pietra.
Il mio nome è Raumi zampe bianche, la mia mamma mi ha chiamato così...
solo che le mie zampine sono tutte nere.» Tese verso i due le zampe
anteriori e poi le guardò un po’ sconsolato. «Ho letto i vostri
nomi scritti sul muro e credo voi possiate aiutarmi.»
«Per
quello che è in nostro potere lo faremo anche se temo noi si possa
avere ormai ben poca influenza sul mondo di voi vivi. Ma del resto questa
è la notte di Natale e il confine tra ciò che è vivo
e ciò che è morto è così debole stanotte, così
trasparente...»
Il
gattino sorrise compiaciuto come solo i gattini bianchi e neri sanno fare.
«Mi
ha mandato a cercarvi Naurp coda rossa, il gatto più anziano e saggio
di tutta la strada alta. Pensate che è così vecchio che si
ricorda perfino di quindici estati fa. Lui è il capo di tutti noi
gatti della strada, gli ho raccontato di voi e lui mi ha detto di cercarvi
qui stanotte perché avreste potuto aiutarmi. Il mio padrone è
così solo e triste che vuole morire e, se non facciamo qualcosa,
certo stanotte lo farà.»
«Morire,
come si può voler morire la notte di Natale» disse il caporale
sinceramente stupito. «Nessuno muore la notte che nasce Gesù
bambino!»
«Tranne
gli scemi di pattuglia dal cuore tenero» sospirò il capitano.
Poi, scrollando la testa, spiegò con voce dolce: «Vedi, caporale,
a volte ti capita di aver perso la speranza. Ti sembra che il dolore e
l’angoscia siano così enormi che non riesci più a pensare
ad altro e fa così freddo che non ricordi nemmeno più cosa
sia il sole ed è così buio che credi davvero che la luce
non tornerà mai. Capita, sai, e quando succede davvero la morte
ti sembra la cosa più bella che ti possa accadere. Sono momenti,
ma a volte quando capitano si fanno delle sciocchezze... Quindi presto
amico Raumi, poiché credi che noi ti si possa essere d’aiuto, noi
saremo con te.»
«Venite
salite sulla mia groppa e vi porterò dal vecchio coda rossa, lui
vi spiegherà» disse il gattino col tono di chi ha troppa fretta
per dare altre spiegazioni.
E
corse Raumi zampe bianche, corse attraverso le strade della città.
E se qualcuno vide le anime dei due vecchi soldati aggrappate alla schiena
del gatto, certo non si stupì della strana scena perché chi
esce a passeggiare la notte di Natale sa bene che può incontrare
cose che è inutile cercar di capire.
Quando
arrivarono davanti al vecchio Naurp compresero subito che quello era davvero
un gatto nobile e saggio. Il capitano si volse a lui in tono deferente
mentre il caporale si mise sul più statuario degli attenti che l’anima
di un soldato abbia mai fatto.
«Lieti
di conoscerla signore.» Il capitano si schiarì la voce osservando
il gattone che sembrava assai compiaciuto dall’atteggiamento rispettoso
con cui i nuovi arrivati gli rivolgevano al parola. «Pare che il
nostro giovane amico Raumi sia nei guai e ci ha detto che lei conosce la
maniera con cui noi si potrebbe aiutarlo.»
Naurp
il saggio, così era anche chiamato, aspettò un attimo poi
rispose con voce solenne:
«Noi
vecchi gatti conosciamo molte cose, molte di più di quante voi umani
immaginiate. Quando uno di noi riesce a diventare vecchio abbastanza da
sapere che il grande sonno è ormai vicino, il Supremo gli regala
una specie di visione in più.
«Come
certo saprete i gatti hanno due visioni: quella del buio e quella della
luce. Ebbene noi vecchi gatti riusciamo a vedere anche attraverso le cose,
acquistiamo una specie di sensazione del tempo in cui tutto: i fatti che
sono stati, e forse anche quelli che saranno, ci appaiono come i fili di
una stessa tela in cui leggiamo il disegno finale.
«Non
so dirvi il perché ma credo, anzi sono certo, che l’uomo di Raumi
abbia bisogno di qualcosa che solo voi potete dargli. Adesso andate presto
che il tempo non è molto; la notte di Natale è lunga ma non
infinita e non avrete un’altra occasione.»
Salutarono
il vecchio gatto con tutto il garbo necessario e seguirono Raumi nell’androne
di un vecchio palazzo. Salirono tre rampe di scale e arrivarono davanti
alla porta socchiusa di un appartamento, Raumi allargò con il musetto
lo spiraglio e vi ci si infilò; le anime dei due soldati attraversarono
il legno massiccio senza difficoltà. L’appartamento era buio ma
da una stanza d’angolo arrivava una luce pallida.
Nella
piccola cucina, seduto con la testa tra le mani, stava un uomo dai vestiti
strapazzati, sul tavolo davanti a lui solo una lettera e la sagoma nera
di una pistola. Non prestò la minima attenzione al gattino che era
appena entrato e, ovviamente, non vide i suoi due inusuali compagni.
Raumi
parlò sottovoce al capitano:
«Due
giorni fa la signora che viveva qui se n’è andata e da allora lui
è rimasto lì senza dire una parola. Credo che il dolore lo
stia uccidendo; vi prego, fate qualcosa.»
Il
capitano era un buon ufficiale. Uno di quelli che sanno tenere sotto controllo
qualsiasi situazione ed ispirano una naturale autorità in coloro
che gli stanno attorno, facendo sembrare le azioni più impossibili
e disperate quasi un gioco da ragazzi.
«Caporale,
lei vada con la recluta Raumi e riportate qua la fuggitiva, io penserò
al resto.» Poi, rivolgendosi al gattino: «Amico Raumi spero
non si offenderà se l’ho reclutata fra noi marò ma questa
è una missione difficile e le missioni difficili richiedono l’ordine
e la disciplina che solo un reparto ben inquadrato può garantire.»
Raumi
non sembrava per nulla offeso della sua militarizzazione, anzi gonfiò
il petto ed assunse una posa molto marziale.
Più
perplesso era invece il caporale che davvero non riusciva ad immaginare
come diavolo avrebbero fatto a riportare lì una donna che non conoscevano
e che non avevano la più pallida idea di dove trovare. “Ma se il
capitano dice che si deve fare una cosa” pensò “allora vuoi dire
che è possibile farla.”
«Sì,
signore, agli ordini signore. Troveremo la padroncina e la riporteremo
a casa» disse il gattino e prese decisamente la testa della pattuglia
esplorante.
Usciti
i due, il capitano si avvicinò all’uomo. Ne accarezzò il
capo, come si farebbe con un figlio a lungo perduto, poi si sedette accanto
a lui e lentamente penetrò la sua anima. Dapprima fu un istante
di luce accecante poi tornò il buio. Il vecchio soldato ricominciò
a sentire sensazioni che da tempo non aveva più.
Sentì
il freddo, la paura e il dolore e capì che quelli erano i sentimenti
dell’uomo che adesso si stavano facendo anche i suoi. Non erano belle emozioni,
certo, ma il riuscire a provarle ancora gli diede comunque un immensa gioia.
Erano la cosa più simile alla vita che provava da tanto tempo ormai,
da quell’ultimo istante lassù in mezzo alla neve della Selva.
Poi
tutta quella luce si fece immagini e le immagini ricordi ed anche questi
comprese non erano suoi.
Vide
una donna bellissima, o almeno a lui sembrò bellissima, che rideva
sotto la pioggia con un ombrello sfasciato in mano, e la vide con un vestito
da sera nero mentre ballava “È lei” pensò il capitano “è
questa la donna per cui quest’uomo sta soffrendo”.
Poi
i ricordi si fecero cupi: vide molte liti e sentì la rabbia di quell’uomo
scaricarsi su di lei, una rabbia cieca, inutile. Vide la donna piangere
molte volte ed andarsene alla fine dopo il più tremendo di tutti
gli scontri. Ebbe allora la sensazione inspiegabile che lei non fosse in
alcun modo responsabile della rabbia che aveva distrutto quella storia
d’amore. Sentì che più a fondo, nel centro dell’anima di
quell’uomo, c’era un veleno che gli intossicava la vita giorno per giorno,
un dolore tanto profondo e lontano da non potersi spiegare; ma era quel
dolore ad averne influenzato le scelte di tutta l’esistenza fino a portarlo
davanti al tavolo dove stava aspettando adesso di farla finita.
Il
capitano cercò allora, disperatamente cercò, guidò
la memoria dell’uomo a ripercorrere passo passo la sua esistenza, ma per
quanto potesse scavare nulla sembrava riportare alla soluzione del mistero
ed anzi il continuo rammentare le passate sofferenze lo stava indebolendo
spingendolo sempre di più verso la morte.
L’uomo
impugnò l’arma ed iniziò ad alzarne il cane.
Il
capitano capì che non c’era più molto tempo. Mentre stava
per lanciarsi nell’estremo tentativo, lo sguardo gli cadde su di una vecchia
foto appoggiata sulla credenza. Nella penombra non era facile distinguerne
i contorni ma qualcosa gli sembrò familiare. Osservò meglio
e riconobbe un uomo in divisa, una divisa uguale alla sua.
Poi
guardò il volto e vi riconobbe il marò Vannucchi.
Allora,
solo allora tutto fu chiaro. Adesso sapeva cosa cercare. Si rituffò
in quella coscienza tormentata e proseguì a ritroso fin oltre dove
la memoria sapeva ricordare e poi ancora più in giù. Arrivò
al cuore smeraldo dell’anima e guardandoci dentro trovò quello che
cercava. Era il viso di quella donna aiutata a Tarnova ma non era il ricordo
dolce che ne serbava lui.
L’unica
immagine di sua madre che quell’uomo portava dentro era la più terribile
si possa immaginare. Ancora in fasce il bambino aveva visto sua madre massacrata
dai partigiani, l’aveva vista urlare col volto stravolto dalla sofferenza
e dal terrore.
Quell’orribile
ricordo seppur cancellato dalla memoria cosciente era rimasto in lui per
tutta la vita e come un cancro maligno ne aveva a poco a poco divorato
l’anima avvelenandola d’odio e di rancore.
Odio
per il mondo, per la gente, tutta la gente, odio persino per la sua donna,
che a quel volto disperato non rassomigliava.
Il
capitano adesso sapeva cosa fare e con le mani sapienti di un chirurgo
cercò il cristallo di quel dolore, lo prese con delicatezza e lo
estrasse.
Ma
c’era un vuoto adesso là in mezzo al cuore, la ferita andava chiusa
ed una sola era la cura. Era lui che conservava il ricordo dell’ultimo
momento felice di quella donna, il sorriso di una madre che sa suo figlio
in salvo e lo guarda per un’ultima volta piena d’amore. Quell’immagine
era l’ultima rimastagli della sua vita passata, ma adesso c’era chi ne
aveva più bisogno di lui e senza rimpianti la prese e delicatamente
la pose nella ferita.
Guardò
l’uomo rialzare il viso, la barba era sfatta ma negli occhi stanchi si
era accesa adesso una piccola fiammella.
Fu
in quel momento che entrò in casa, annunciata dal sonoro miagolato
di Raumi, la donna che due giorni prima era scappata. I due si guardarono
per un attimo prima di sciogliersi nel più lungo, profondo e tenero
abbraccio della loro vita.
Li
lasciarono così, ancora abbracciati, il capitano, il caporale e
Raumi che accompagnò i suoi amici verso casa.
Arrivati
davanti alla porta della cripta il gattino si fermò e i due vecchi
soldati si voltarono per salutarlo.
«Be’,
credo proprio che stasera lei abbia meritato la nomina a marò, caro
signor Raumi» disse il capitano. «Non voglio sapere come abbiate
fatto a trovare quella donna ma so che non deve essere stata un impresa
facile. Mi complimento ancora.»
«Ci
vedremo ancora l’anno prossimo?» chiese Raumi.
Il
capitano scosse la testa con un sorriso triste:
«Io
me ne devo andare per sempre. Per salvare il tuo padroncino ho dovuto rinunciare
all’ultimo ricordo che mi teneva legato a questa terra e adesso è
venuto per me il momento di lasciarla. Non varcherò più la
porta di questa cripta, questa non è più la mia casa.»
Il
caporale guardò il suo capitano con gli occhi pieni di lacrime.
«Non
può lasciarmi solo signore» disse con voce sommessa «non
può farlo, non voglio star là sotto senza di lei.»
«Non
dire sciocchezze» rispose brusco l’ufficiale. «Hai tutti gli
altri commilitoni che restano ancora. E poi le regole non le ho fatte io.
Quando più nulla ci lega alla terra bisogna andarsene e ricominciare.
Toccherà anche a te un giorno.»
Il
caporale volse gli occhi verso terra e sembrò rassegnarsi. Il capitano
si avvicinò al gattino per un ultimo saluto quando un voce risuonò
alla sue spalle ed era una voce sicura, come non l’aveva mai sentita.
«Lei
ha ancora un ricordo, capitano, non può andarsene.»
L’ufficiale
si voltò verso il caporale.
«Quella
sera a morire con lei c’ero anch’io. Fianco a fianco abbiamo combattuto
assieme per l’ultima volta. Questo lei non l’ha scordato e se per caso
le venisse in mente di farlo ci sarò sempre io farglielo ricordare.
“In omnia Fecola seculurum”.»
«Amen»
disse il capitano sorridendo e voltandosi rientrò nella cripta per
un sonno che, adesso lo sapeva, sarebbe durato un anno solo. |