Racconto
vincitore dell'edizione 2000
L'ULTIMA
VISITA
di
Claudio Chillemi
Quando
mia madre morì, ricordo che mio padre non pianse. Rimase a lungo
a guardare quel corpo privo di vita, e parlava a bassa voce con esso, come
se lei potesse rispondergli, o, quel che è più incredibile,
gli rispondesse. Pensai ad una sua pazzia, che il dolore l’avesse distrutto
fino al punto di piegare la sua mente, ma non fu così o, almeno,
così non sembrava. Egli viveva quei momenti quasi senza sconforto,
animato da una speranza, che non aveva nessuna ragione di esistere. Mio
padre viveva come se mia madre fosse ancora con lui, ed io? Mi ero sposato
già da due anni, ma li sapevo tranquilli, e, ogni tanto, andavo
a trovarli. Morta mia madre andai da mio padre molto più spesso,
credendolo solo ed abbattuto, ma, come detto, non era così.
Il
giorno in cui mio padre morì era una di quelle domeniche che io
avevo deciso di passare con lui, dopo aver lasciato mia moglie e mio figlio
da mia suocera. Giunsi verso le nove al paese, e già le vecchie
signore vestite di nero erano per strada di ritorno dalla messa di un’ora
prima. Arrivai a casa di mio padre e posteggiai l’automobile sotto l’ombra
di una tettoia, dove si arrampicavano molte piante di viti. Chiamai ad
alta voce, e qualcuno mi rispose dall’interno. Era mio padre che stava
consumando la sua parca colazione a base di pane e latte. Mi salutò
con un bacio sulla guancia e mi chiese subito della mia famiglia, io gli
risposi che stavano tutti bene, e domandai della sua salute. Durante la
conversazione, mi guardai intorno, la cucina era sempre la stessa; i mobili
in legno dove mia madre teneva le conserve, e il pane, che lei stessa faceva
nel forno accanto alla casa, sembravano non soffrire per nulla della sua
mancanza. Ogni cosa era ancora al suo posto, il vecchio macinino del caffè,
il setaccio per il grano e la crusca, le pentole di rame attaccate a chiodi
ormai arrugginiti, e, fermo immobile ad aspettare che qualcuno lo indossasse,
il suo grembiule, che mi induceva a tenere ricordi di colazioni dolci e
sazianti, di pranzi squisiti e abbondanti, di cene calde e confortanti.
La cucina era ancora lì, immobile ad aspettarla, senza accorgersi
della sua assenza.
Sentivo
l’eco delle parole di mio padre, e ascoltavo il dolce suono della sua voce,
senza curarmi molto di quello che diceva, perso, com’ero, a ricordare la
mia infanzia. Fu così che ritrovai il bambino che giocava con Gianni,
il figlio più grande della signora Rosa che abitava ad un centinaio
di metri da noi; lo stesso ragazzo scavezzacollo che mangiava le albicocche
rubate da dentro un cesto del fruttivendolo vicino casa. E, come allora,
guardavo con immutato stupore mio padre e mia madre baciarsi ogni momento
quando il momento glielo consentiva. Quell’idillio, che li aveva accompagnati
fino alla morte di lei, anche se lui continuava a vivere come se ci fosse
ancora.
Mio
padre mi portò con sé in paese, voleva andare a comprare
il giornale, e, come al solito, si sarebbe fermato a bere qualcosa al bar.
Durante il breve tragitto incontrai tutti volti nuovi, figli e figlie di
persone che conoscevo bene. Il professor Cecchi, mio insegnante di matematica,
mi salutò battendo la sua mano sulla mia spalla, accompagnando quel
gesto con una profonda risata baritonale; Giacomo Verdi, padre del mio
migliore amico, ci invitò a casa sua per una rimpatriata, ma noi
declinammo l’invito, adducendo imprecisati motivi di famiglia.
Mi
sentivo come in un film, quelle pellicole dominate da un filtro color seppia,
che ricorda le vecchie foto di famiglia di fine Ottocento. E, finalmente,
mi trovai al bar, insieme a mio padre che leggeva il giornale, commentando
le notizie ad alta voce con gli altri avventori e bevendo, riluttante,
un bicchiere di gazzosa con uno spicchio di limone, da quando il medico
gli aveva proibito il vino. Da parte mia, ero inquieto, e dimostravo il
mio disagio tamburellando le dita sul piccolo tavolo, che si reggeva a
mala pena, piegato dai suoi tre decenni di vita. Guardando quelle pareti
logore, dove, per incuria del proprietario, erano ancora appesi calendari
di alcuni lustri prima, mi sovvenne un ricordo dolcissimo e buffo, che
aveva avuto come protagonisti i miei genitori. Mia madre, un giorno, venne
proprio in questo vecchio bar a prendere a legnate mio padre, reo di star
tutto il giorno a bere, e io, con i miei compagni nascosto dietro a un
muro, mi gustai divertito tutta la scena, anche quando il mio focoso genitore,
tornando a casa, prese in braccio mia madre, e le diede un bacio, giusto
per fare pace.
Mio
padre mi fece un cenno, ed uscimmo dall’osteria, salutati dalla gente.
Tornammo pian piano a casa e, durante la strada, decidemmo cosa preparare
da mangiare per il pranzo. «Ammazzerò un pollo!», mi
disse, ed io feci di sì con la testa. Una volta i polli li ammazzava
mia madre, mio padre non aveva abbastanza coraggio, ora, per forza di cose,
si era dovuto adattare. Mentre mio padre cucinava, mi guardai ancora intorno.
Uscii
fuori in giardino, dove si vedevano i fiori piantati da mia madre, li sfiorai,
e provai fortemente la sensazione di accarezzarla, ma non era così.
Vidi un’ombra innanzi a me, e mi voltai, era mio padre che, messo sul fuoco
il nostro pranzo, mi aveva raggiunto.
«Belli»
mi disse con voce strana.
«Sì,
papà... Li ha piantati mamma, vero?»
«Oh
sì, ed io ora li curo.»
«Soffri
molto la sua mancanza?»
«Quale
mancanza?»
«Il
fatto che lei non c’è. Che non condivide i tuoi giorni.»
«Quant’è
presuntuoso l’uomo. Vuole dare nome e cognome ai giorni; ventidue settembre
millenovecentoetanti... E non sa dare un nome a se stesso, non sa darsi
una sua identità. Oh, non dico che non mi chiamo più Giovanni,
e che lui non si chiama più Michele, io dico solo che l’uomo in
diecimila anni non è riuscito ancora a trovarsi, e vuole dare un
nome al tempo, vuole soffrire per una mancanza che non esiste. Se soffrissi
per la perdita di tua madre, la mia sofferenza sarebbe vana, in quanto,
chi soffre per la sua assenza? Io, tu, e qualcun altro, ma poi?, chi altri?
Nessuno! Essa non vivrà in eterno nei nostri ricordi e nelle nostre
menti, e dovrà morire nuovamente, quando noi moriremo. Quello che
mi manca veramente è il suo corpo, e nessuno potrà restituirmelo.
Esso è l’unica cosa capace di creare nuove situazioni, che generano
altri ricordi....»
«La
morte rende ogni cosa priva di significato?»
«No,
ma gli dà il suo vero significato. Gelosie, invidie, amori, tenerezze.
Ogni cosa assume la sua reale dimensione e si inserisce nel tempo, in quel
tempo in cui essa è nata e poi si è consumata. E cosa possiamo
pretendere noi uomini se non quello di lasciare incastonate nel tempo le
nostre piccole pietre. Questo solo ci è concesso! E vorremmo dare
un nome agli anni, ai mesi che passano....»
«Ma
non resta proprio nulla di noi?»
«Mah?»
disse mio padre allargando le braccia, e si avviò verso casa.
Lo
seguii e, pieno di dubbi e d’incertezze per il lungo discorso appena udito,
m’accorsi, quasi con terrore, che per l’uomo, oltre alla morte fisica,
si preparava un’altra morte, quella dell’oblio. Mio padre era sempre stato
molto bravo con le parole, fin da quando, appena diciassettenne, entrò
pieno di speranze alla facoltà di lettere. Ma, due anni dopo, aveva
dovuto abbandonare gli studi per curare le aziende agricole di mio nonno,
prematuramente scomparso. Nonostante questo, la sua passione per la lettura
dei classici e il filosofeggiare non era venuta meno, e, anzi, si era arricchita
di quella certosina pazienza e di quel sano buon senso tipicamente contadino.
Ecco perché, ancora una volta, le sue parole instillarono in me
un profondo senso di disagio, ed io cercai di ribellarmi a quella ineluttabile
sentenza pronunciata da mio padre. Non potevo accettare una cosa simile,
non potevo. Mi precipitai in casa nel vano tentativo di farlo ragionare,
ma trovai già il cibo nel piatto, profumato e fumante, le posate
belle in ordine, e il bicchiere capovolto per non far entrar polvere. Tutto
ordinato, tutto perfetto. Così, la mia inquietudine svanì
in un istante, di fronte a quell’ulteriore miracolo che aveva indotto mio
padre a sistemare la tavola per il pranzo allo stesso identico modo di
come avrebbe fatto mia madre.
Fu
un incedere lento e silenzioso, scosso solo dal tintinnare della forchetta
sul piatto, dallo scorrer dell’acqua e del vino, dal masticare incerto
e tenace, su ossa di pollo ben cotto. Non una parola, e nemmeno un sospiro,
cullati dall’ombra del canneto nutrimmo il nostro corpo senza distrarci.
Finito di mangiare, mio padre iniziò a sbucciare una pera con estrema
perizia. Tagliò la parte superiore e la buttò nel piatto,
quindi tagliò una porzione circolare, e la sbucciò. Poi,
mentre la mangiava, ne tagliò un altro pezzo; e così via,
finché l’intera polpa del frutto non fu finita, e nel piatto rimasero
un cumulo di bucce.
Nel
presto pomeriggio andammo a dormire. Mio padre si sdraiò su una
poltrona vicino l’ombra a scacchi di una veranda, e, al leggero venticello
di quella giornata, si cullò dolcemente nel mondo dei sogni leggendo
beatamente le odi del Manzoni. Io rimasi sveglio giocherellando con vecchi
soprammobili che avevo imparato a conoscere fin da bambino. Un mortaio
di ferro, che mi divertivo a far suonare come una campana, o un dolce angioletto
di ceramica, con un’ala spezzata da un’involontaria caduta. Ogni cosa,
la più piccola cosa, aveva un ricordo legato, stretto ad essa, che
la rendeva viva, organica, e non inerte materia raccogli polvere.
Restavo
a guardare il mio vecchio genitore e il silenzio regnava attorno a me,
nella campagna circostante.
Mio
padre si svegliò un’ora dopo, si alzò e, mentre camminava,
si teneva la schiena con la mano, quasi a volersi sorreggere. Entrò
in un piccolo sgabuzzino e ne venne fuori con una grande scatola, si sedette
accanto a me, e l’aprì. Vi stavano fotografie, lettere, gioielli,
cartoline illustrate, alcune penne, e vari altri oggetti.
«Di
chi è questa roba?» chiesi.
«Della
mamma!»
«E
le foto? Non sei tu, l’uomo che abbraccia....»
«È
il primo fidanzato di tua madre. Quanto mi hanno fatto soffrire queste
fotografie, ma lei non le ha mai buttate, anche dopo decenni che eravamo
sposati. “Non serve a nulla”, mi disse. Ed io pensai che aveva ragione,
perché il ricordo di quell’uomo era comunque in lei, con o senza
fotografie. E questo è un fatto. Io ho distrutto e bruciato ogni
cosa del mio passato. Nella mia vita ho visto ciò che era importante
per me, e il resto l’ho dimenticato, ho voluto dimenticarlo. Non so chi
di noi abbia fatto meglio, ma qualcosa resta....»
Si
alzò ancora più stanco, ed andò a riporre la scatola.
Io lo vidi pallido, e cercai di sorreggerlo, lui si scostò dolcemente
e mi sorrise. Iniziai a capire che qualcosa non andava, e rilessi, alla
luce di una previsione profetica, le parole che mio padre mi aveva detto
quel giorno. Il parlare della morte, della dimenticanza.
Lo
vidi prendere da un cassetto una corona per recitare il rosario, fatta
con petali di rose. Mi sovvenne che essa era stata regalata a mia madre
da una vecchia signora incontrata sul pullman, mentre andavamo in pellegrinaggio
a Santa Rita da Cascia. Dopo anni, la corona odorava ancora, e mio padre
l’annusò.
«Io
ora dirò il rosario» mi disse.
«Vuoi
che ti faccia compagnia?»
«No!»
Ed
iniziò a pregare, mentre io, in un angolo, vivevo tutto questo come
un sogno. Mio padre, infatti, pronunciava la prima parte di ogni preghiera,
e poi stava in silenzio, come se attendesse la risposta di qualcuno che
recitava il rosario insieme a lui. Gli chiesi, allora, spiegazioni del
suo agire.
«Ma
qui non c’è nessuno, papa!»
«Qui
no, ma là fuori sì! Là fuori, senti?... Ascolta! Udrai
anche tu la risposta.»
Feci
finta di stare ad ascoltare, per fargli piacere, e quindi gli diedi ragione.
«Sì,
c’è qualcuno là fuori!»
«Tu
menti, tu non hai sentito. Ma fa lo stesso, io sento... Sento chiaramente.»
E
continuò a pregare. Poi, lentamente, reclinò il capo, mormorò
delle parole, chiuse gli occhi. Stava morendo.
Ho
dei ricordi confusi di quelle ore. Chiamai il dottore, poi il prete, e
infine i cugini, avvertii ogni persona. Quindi, compresi che non c’era
più nulla da fare, raccolsi le sue ultime parole e lo lasciai andare.
Mi
resi conto che era proprio impazzito. Mormorare in punto di morte quelle
strane parole! Mi preoccupai per la sua dignità di uomo, per la
sua integrità di brava persona, cosa avrebbe pensato mia madre se
lo avesse visto mutato a tal punto? La sua splendida mente che girava a
vuoto, il suo incomparabile cervello che non trasmetteva più sublimi
pensieri... Ma, fortunatamente, io solo udii le sue parole morenti, e così
lo confortai come potei, prendendo la sua mano nella mia e sorridendogli,
mentre i suoi occhi si chiudevano per sempre.
Quando
il feretro, però, si mosse lungo la navata centrale della chiesa
madre del paese, mi accorsi, per la prima volta, che le parole di mio padre
un senso, seppur lato e misterioso, lo avevano. In effetti noi siamo dei
grumi di carne che il tempo trascina con sé. E su queste considerazioni
mi soffermai a lungo a pensare, senza stare a sentire la predica del parroco,
le strette di mano, le condoglianze più o meno sincere, il suono
lento e lugubre della campana. E, come non visto, mi ritrovai a casa mia,
rinchiuso in una stanza da solo.
Ancora
sopra pensiero mi colse il sonno. Mi svegliarono alcune voci indistinte.
Da dove provenivano? Non lo riuscii a capire, ma risposi al loro richiamo.
«Sì»
dissi. «Sì!»
-Caddi,
allora, in un profondo torpore; e, nel momento in cui mi destai, il ricordo
di quell’episodio era indelebile in me. Ma, non seppi mai se quelle voci
io le avevo sognate, le avevo udite veramente, o se erano il parto della
stessa pazzia che aveva colpito mio padre quando morì. |